Se vogliamo che la discussione sulla chiusura dell’area archeologica romana abbia senso dobbiamo avviare una riflessione pacata, lontana dagli isterismi e trasformismi della contingenza politica.
Sarò allora polemico e mi auguro provocatore: I beni culturali non si difendono né valorizzano per i turisti, ma in quanto tali. Essi testimoniano la nostra storia, sono la nostra memoria, sono i custodi autentici della nostra identità. Forse questo è un uno dei motivi, non l’unico, per il quale il patrimonio culturale non è valorizzato appieno: il tentativo di costruire una identità nazionale contrasta con la straordinaria presenza in ambito locale di percorsi, storie e testimonianze che dimostrano una frammentazione ineguagliabile, con un fiorire di società, scuole e realtà di valenza internazionale.
Se è stato facile far scomparire dai libri di scuola la storia locale anche quando locale, come nel caso della Repubblica di Venezia, non era, per quanto riguarda il patrimonio artistico e culturale è bastato farlo passare in secondo piano, non facendolo amare e capire ai suoi primi fruitori e difensori, i cittadini.
Continuiamo a dire che siamo il primo Paese al mondo per opere d’arte ma in quante scuole viene insegnata storia dell’arte? In quante scuole viene promossa la conoscenza del patrimonio locale? Quanti veneziani hanno visitato il Teatro Olimpico a Vicenza? Non vi stupirà sapere che nemmeno i vicentini conoscono questo gioiello. Forse sono più i veneti che hanno visitato la casa e la tomba di Giulietta, cioè un riuscito falso, ma non il museo di Castelvecchio o la Tomba Brion di Carlo Scarpa ad Altivole, cioè autentici capolavori. Per un paradosso forse sono più i veneti che hanno qualche, vaga, nozione sui Nabatei, perché hanno visitato Petra in Giordania, ma non sanno nulla della Grotta di Fumane in Valpolicella, di Fratta Polesine, del Bostel di Rotzo, oppure di Este.
Mi fermo, ma spero che anche questi semplici esempi spieghino quanto noi per primi sappiamo ben poco di quel patrimonio inestimabile che custodiamo o che abbiamo a pochi chilometri da casa. Si difende ciò che si ama e si conosce. Il patrimonio culturale certo è fondamentale nell’attrarre turisti, ma ben prima dei foresti vengono i cittadini ed esso è una autentica fonte di ricchezza che non si misura solo con i biglietti venduti o i flussi di visitatori.
Patrimonio culturale sono anche le biblioteche, i libri, antichi mestieri e saperi. C’è una ricchezza interiore che si chiama appunto cultura, che in Italia non è mai stata coltivata. Anzi.
E qui si apre un secondo, ma non per questo meno importante, fronte di discussione.
Se in queste ore, dopo averci nei giorni scorsi spiegato l’esiguità degli stanziamenti per acquisto volumi nelle biblioteche, Gian Antonio Stella ci spiega la discrepanza tra il numero di custodi dei beni culturali tra Campania Lombardia e Veneto, ancora diciassette anni or sono ( “Cosenza, 160 impiegati per produrre 44 fotocopie al giorno” in Corriere della Sera 14 luglio 1998) il giornalista vicentino notava la singolare incongruenza tra il numero di addetti dell’Archivio di Stato di Venezia, che con 53 dipendenti nel 1998 costudiva i documenti della Serenissima, contro i 168 in organico all’Archivio di Stato di Cosenza custodi di atti notarili locali. Nel suo intervento “Le antiche clientele” pubblicato dal “Sole 24Ore” del 27 luglio 1998, Antonio Paolucci spiegava perché “Soprintendenze, gli Archivi e le Biblioteche del sud siano in overdose di personale, mentre gli istituti del Nord si confrontano ogni giorno con umilianti penurie”.
Storie di gestione clientelare colpevole, dilettantismo provinciale, appunto ignoranza, l’esatto contrario di quella professionalità e conoscenza che la cultura richiede persino nell’era del consumismo sfrenato, dove forse i cittadini s’affollano a visitare improbabili mostre, con bellissimi quadri portati in giro come madonne pellegrine ma non vanno i visitare i musei sotto casa. E la colpa è ben divisa tra tutti. Sia chiaro.
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