Ritorno all’Indro Montanelli del 1996: “Come scrissi in tempi lontani, e come ormai mi sono stancato di ripetere, Venezia non aveva, per restare Venezia, che una scelta: mettersi sotto la sovranità ed il patronato dell’Onu per riceverne il trattamento, che certamente le sarebbe stato accordato, dovuto al più prezioso diadema di una civiltà non italiana, quale la Serenissima mai fu né mai si sentì, ma europea e cristiana, intesa unicamente alla conservazione di se stessa, quale tutto il mondo civile la vorrebbe”. Se vogliamo parlare di “ceppo veneto” o alterità del Veneto rispetto ad altre regioni italiane dobbiamo andare alla nostra storia come spiegava Montanelli, per scoprire che l’autonomia è scritta nel DNA del Veneto. Già il deputato repubblicano veneto Guido Bergamo negli anni Venti del secolo scorso dalla Camera bollava “il governo centrale di Roma, questo governo di filibustieri, di ladri e camorristi organizzati” invocando “la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto”.
Guido Bergamo, tra l’altro Medaglia d’Oro al Valore civile per il suo impegno di medico, sarà tra gli organizzatori della Resistenza nel Triveneto e nel 1945 guiderà l’insurrezione di Mestre. Non diversamente da Bergamo anche un altro veneto illustre, dimenticati da troppi, avrebbe sostenuto le ragioni di una riforma federalista dello stato uscito dal fascismo: Silvio Trentin, unico docente universitario assieme a Nitti e Salvemini, a dimettersi dalla cattedra per non dover sottostare alle disposizioni del Governo fascista, sostenne l’idea di un nuovo ordine in Europa come in Italia e, da uomo di sinistra, poggiò la sua tesi sia sul concetto del collettivismo economico, per assicurare giustizia sociale, sia su federalismo, autogestione e l’autonomia, a salvaguardia delle libertà individuali con riconoscimento delle prerogative proprie a ciascuna Istituzione ed ente operanti nello stato.
Il Veneto non ha mai fatto mistero della sua insoddisfazione verso una visione centralista dello stato, di uno stato incapace di comprenderne e valorizzare la sua alterità e specificità pur nel contesto nazionale. Una insofferenza a cui seppe dar voce, tra gli altri, anche in anni a noi più recenti, Goffredo Parise, giornalista, scrittore, intellettuale: “Il Veneto è la mia patria. Sebbene esista una Repubblica Italiana, questa espressione astratta non è la mia Patria. Noi veneti abbiamo girato il mondo, ma la nostra Patria, quella per cui, se ci fosse da combattere, combatteremmo, è soltanto il Veneto”.
L’esito della recente tornata elettorale è inconfutabile: 49.88 per cento dei voti alla Lega in tutta la regione con il picco massimo nella provincia di Treviso, 53,64 per cento seguita da Vicenza, 52,66 per cento: il segnale è chiaro, il Veneto ormai ha fatta propria la scelta autonomista, una scelta non contro qualcuno ma per riformare uno stato la cui inefficienza è palese.
Sul finire degli anni Novanta del secolo scorso Sergio Romano dalle colonne del Corriere della Sera notava: “la verità è che la classe politica nazionale sa perfettamente che l’autentica autonomia di alcune importanti regioni la priverebbe di gran parte della sua autorità…Esiste una nomenklatura politica, amministrativa, economica, sindacale, per cui l’Italia deve restare ‘una e indivisibile’. Per coloro che ne fanno parte non è soltanto una patria: è anche un grande collegio elettorale, un serbatoio di voti, un datore di lavoro, la ragione sociale del loro mestiere”. Questo blocco è insostenibile non solo per il Veneto e nella sua pretesa di bloccare il processo autonomista e la riforma dello stato italiano rischia di travolgere l’intero Paese e la democrazia.
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