Con un colpo di mano il governo cancella le banche popolari. Molto c’è da dire in questa scelta. Innanzitutto il metodo: il ricorso alla decretazione di urgenza sottrae al Parlamento il diritto-dovere di pronunciarsi su una provvedimento che muta gli equilibri economico finanziari di una parte del Paese. E’ chiaro che è saltato ogni meccanismo democratico con tutte le conseguenze del caso: c’è chi decide e chi subisce le decisioni altrui imposte dall’alto.
La grande finanza a dire il vero aveva già provato a mettere le mani sulle Popolari: gli stress test a cui erano state sottoposte le banche sembravano confezionati apposta per giustificare provvedimenti di emergenza e rottamare un modello capace di resistere alla grande crisi e alle devastazioni perpetuate proprio dalla finanzia internazionale.
Andata male questa mossa, si è passati all’azione di forza. L’eliminazione del voto capitario è il preludio alla svendita di un patrimonio inestimabile: nel mirino della grande finanza a breve non ci sono le banche, quanto le partecipazioni in fondi come Arca, controllate apponto dalle Popolari, tra i principali gestori del risparmio in Italia, più che un boccone prelibato.
Chi darà la scalata alle grandi Popolari non è interessato a sportelli e all’innervamento nel territorio Per costoro, il futuro non è lo sportello ma la piattaforma digitale mentre il governo degli Istituti sarà concentrato nelle mani di una ristretta élite soggetta ad una responsabilità quasi del tutto fittizia di fronte a degli azionisti remoti e dispersi.
Ma questo scenario, più che realista, elimina dal tessuto socioeconomico la banca popolare che, almeno nel Nordest, viveva in stretta simbiosi con il territorio e i suoi attori. In un’area, come il Veneto, dove le imprese soffrono di sottocapitalizzazione il pericolo è quello di lasciare il rubinetto del credito nelle mani di una ristretta oligarchia internazionale e cosa significhi questo rischio è facilmente comprensibile.
Il credito può sancire il successo o la sconfitta di una idea produttiva, determina l’evoluzione come la chiusura di una impresa, condiziona la qualità del vivere di una bottega, di una famiglia e di un intero territorio. Se il Veneto uscirà con molti meno danni rispetto ad altri dalla crisi, lo si deve anche alla rete delle nostre Popolari che hanno saputo difendere le imprese e quel risparmio su cui, come già detto, molti vogliono mettere le mani.
Un conto è sapere che quel risparmio viene re-investito nelle nostre imprese, un altro è ipotizzare che quei soldi verranno canalizzati chissà dove e magari usati per speculazioni folli. Non dimentichiamo che i guai maggiori in questi anni li hanno creati, dai mutui sub-prime ai derivati tossici proprio le grandi Spa, non certo le Banche popolari e i casi italiani di malgoverno, Monte Paschi e Pop Genova, hanno precisi padrini politici.
Con questo non intendo di certo sottovalutare il problema del dimensionamento delle Popolari che devono essere giustamente patrimonializzate e modernizzate. Ma questo problema può essere risolto in maniera ben diversa e qui lancio la mia proposta: le Popolari facciano fronte comune, si aggreghino, si costituiscano come unico grande soggetto per rimanere al servizio dei nostri cittadini, del mondo del lavoro e del nostro risparmio.
Senza controllo del credito e senza l’oculata gestione della raccolta e del risparmio lo sviluppo del territorio, le nostre imprese, la qualità della vita, l’occupazione, i consumi, la ricerca e l’innovazione sono violentemente condizionati dall’esterno. Un tempo i territori si conquistavano con le guerre, oggi si comprano in Borsa
21 gennaio 2015
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